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Foodora e le macerie della gig economy

Business Insider analizza i problemi della gig ecoomy nati dopo il caso Foodora

Foodora minacciava di abbandonare l’Italia se la politica si fosse arrogata il diritto (!) di normare i contratti di lavoro della gig economy: e via tavoli, trattative, accordi, un gran lavoro per il neoministro allo Sviluppo economico Luigi Di Maio. Ma – si scopre oggi – erano tutte sciocchezze. Oppure, a voler pensare male, era banalmente una prova di forza: già, perché Foodora è in cerca di un acquirente e abbandonerà comunque l’Italia, insieme ad altri mercati (Francia, Olanda e Australia).

La società di consegna di pasti a domicilio – in inglese food delivery, ma scrivendolo in italiano forse se ne ridimensiona l’aura irresistibilmente innovativa e si riportano le questioni alla loro essenza – di proprietà del gruppo tedesco Delivery Hero, recentemente quotato in Borsa con una valutazione di 4,4 miliardi di euro (e capitalizzazione, al 3 agosto, quasi raddoppiata: 8,73 miliardi), ha fatto sapere che in Italia non ci sono margini sufficienti di crescita e di guadagno per restare.

“La strategia di Delivery Hero è quella di operare in modo economicamente efficiente, con focus su crescita e posizione di leadership in tutti i mercati in cui opera. In Italia questo obiettivo è ora difficile da raggiungere con investimenti ragionevoli”, ha commentato Emanuel Pallua, fondatore di Foodora.

Cosa significhi investimenti ragionevoli nessuno lo ha specificato, ma si presume che il mercato non sia sufficientemente grande, e sia invece troppo affollato di competitor nonché di nuove rivendicazioni sindacali, per vedere in prospettiva utili. Meglio battere in ritirata, lasciando i cocci da raccogliere a qualcun altro.

Sbarcata in Italia nell’estate del 2015, Foodora si presentò in un tripudio di marketing: le stazioni della metro di Milano ricoperte di rosa, volantini ovunque e poi sconti, promozioni e battage delle pubbliche relazioni. I cittadini presero però dimestichezza con i ciclofattorini e i loro non-datori di lavoro soltanto un anno dopo, nell’autunno del 2016, in occasione del primo sciopero dei rider: all’epoca a pedalare per Foodora erano circa 900 persone e chiedevano una paga fissa oraria, un’assicurazione e di non essere governati solo da un algoritmo, cioè che qualcuno assecondasse richieste di orari e turni.

Qualche mese dopo lo sciopero, conclusosi senza cambiamenti di rilievo, i fattorini erano diventati 1.300; oggi il loro numero non si conosce perché l’azienda ha smesso di comunicarlo. Si sa però che sono circa 2 mila i ristoranti da cui si può acquistare qualcosa, in sei città. I ricavi di Foodora sono nelle quote che preleva dal conto del cliente, negoziati diversamente a seconda degli accordi ma fino al 30% del valore dello scontrino.

Evidentemente, non abbastanza per garantire la redditività quando ormai le strade sono piene di fattorini di (almeno) cinque diverse società (oltre a Foodora, ci sono Deliveroo, UberEats, Just Eat, Glovo). Ma abbastanza per avere un successo che ha consentito di fare la voce alta col governo e di rifiutare a lungo soluzioni di compromesso.

Di che tipo di successo si tratta? Non certo economico, come l’azienda stessa ha suo malgrado ammesso: il che dovrebbe costringere tutti a sedersi e a ripensare alla consistenza di un modello di business e di crescita come quello della gig economy. Piuttosto, il successo è stato nel mescolare e far coincidere il concetto di “innovazione” con un modello di consumo non etico e neppure responsabile, che si innesta sulla nostra pigrizia (perché uscire a prendere qualcosa da asporto se qualcuno pagato 3 euro – e non da noi – ce lo consegna in mezz’ora?) e sull’erosione dei diritti altrui.

Sull’indietreggiare della forza della contrattazione (sia quella dei fattorini, che quella dei ristoranti) e sulla constatazione amarissima che la politica non è stata in grado di intervenire, né nella scorsa né in questa legislatura – per i rider, alla fine, il decreto dignità non cambierà nulla – manifestando pubblicamente la propria inadeguatezza, con un segnale chiaro per altri che dovessero arrivare nel futuro: fate come credete, noi non sappiamo come comportarci. Davvero una débâcle.

Insomma, Foodora se ne va dopo aver contribuito a diffondere un modello economico insostenibile, dopo aver logorato diritti e dopo aver messo alla corda alla politica. Un risultato niente male, in soli tre anni. Poi, certo, le responsabilità sono condivise, di aziende che non funzionano ne esistono tante e la scomparsa della società – che comunque continuerà ad operare finché non subentrerà un compratore – non significa per forza che i rider in giacca rosa resteranno senza impiego: probabilmente andranno a pedalare per la concorrenza. Con un ultimo lascito velenoso: i fattorini potrebbero diventare persino troppi per l’effettiva richiesta, e l’esubero di forza lavoro non aiuta mai a contrattare condizioni migliori.


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Intersections raduna a Milano il mondo del marketing, della comunicazione e della creatività

Dall’unione di IAB Forum e IF! Italians Festival nasce Intersections, il più grande evento in Italia dedicato al mondo del marketing, della comunicazione e della creatività che si svolge a Allianz Mico a Milano il 29 ec 30 ottobre 2024.

IAB Italia, ADCI e UNA hanno deciso di realizzare il primo grande evento sistemico per rispondere in modo compatto all’evoluzione e alle sfide della industry in questo particolare momento storico, guidato anche dalla grande discontinuità dell’Intelligenza Artificiale.


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Google è monopolista secondo il Dipartimento di giustizia USA. Ora potrebbe esserci il suo spezzatino

Un documento presentato al giudice federale degli USA Amit Mehta ha portato alla decisione di sanzionare Google per attività monopolistiche. La causa, promossa dal Dipartimento di Giustizia (DOJ) e diversi stati, sostiene che Google abbia usato il proprio potere di mercato in modo anticompetitivo, impedendo ad altre aziende di competere nel settore della ricerca online e dei servizi digitali.

Il giudice Mehta ha valutato le prove contro Google riguardo a vari accordi esclusivi con produttori di dispositivi e sviluppatori di browser che garantiscono a Google di essere il motore di ricerca predefinito su milioni di dispositivi. Questa esclusività ha reso quasi impossibile per i rivali ottenere una significativa quota di mercato, contribuendo a consolidare il monopolio di Google. Il DOJ, insieme agli avvocati generali di diversi stati, ha contestato che Google abbia illegalmente monopolizzato il mercato della ricerca e della pubblicità online attraverso accordi con aziende come Apple e Samsung per mantenere il proprio motore di ricerca come opzione predefinita su diversi dispositivi.

Il cuore dell’accusa riguarda gli “accordi esclusivi” di Google, che hanno portato all’accumulo di circa il 90% delle ricerche online e all’88% del mercato della pubblicità testuale, ostacolando i concorrenti dal punto di vista degli investimenti e dell’innovazione. Il DOJ ha dimostrato che Google paga ingenti somme per diventare il motore di ricerca predefinito, ad esempio su dispositivi Apple, scoraggiando il cambiamento di provider da parte degli utenti e limitando le scelte disponibili al consumatore.

La sentenza non prevede danni economici, ma un’ingiunzione che potrebbe includere misure per impedire a Google di continuare accordi esclusivi di default o addirittura obbligare l’azienda a separare il business della ricerca da altre operazioni come Android e Chrome.

Questo caso rappresenta un passo storico per l’antitrust negli Stati Uniti, simile al processo Microsoft degli anni ‘90, e potrebbe aprire la strada a nuove regolamentazioni per altri giganti della tecnologia, tra cui Apple e Amazon, anch’essi sotto scrutinio legale per pratiche anti-competitive.

Il Governo ha raccomandato che Google deve cambiare il suo modello per riaprire il mercato dei motori di ricerca e dei servizi digitali alla concorrenza con possibili cambiamenti strutturali, un termine che molti osservatori intendono con una scissione ovvero con uno spezzatino.

Un team legale specializzato del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ), affiancato da esperti in regolamentazione antitrust e tecnologia, sta lavorando a una serie di raccomandazioni per il giudice federale Amit Mehta. La proposta del DOJ include sia rimedi comportamentali che strutturali per affrontare l’impatto monopolistico di Google. I rimedi in valutazione spaziano da restrizioni su accordi preinstallati con produttori di dispositivi, all’accesso dei concorrenti ai dati di ricerca, fino alla potenziale separazione di parti dell’azienda per ripristinare la concorrenza nel settore dividendo Chrome, Google Play Store e il sistema operativo mobile Android dal search.

Questa prima versione delinea una serie di strade per la riforma, tra cui l’obbligo per Google di rendere accessibili i dati e i modelli di programmazione utilizzati per generare risultati tramite il suo motore di ricerca. Il Dipartimento di Giustizia sta anche valutando la possibilità di chiedere al giudice di vietare a Google di utilizzare o conservare i dati che si rifiuta di condividere con società terze.

Google ha dichiarato che intende appellarsi alla decisione, sottolineando che le accuse ignorano i benefici offerti ai consumatori dal loro motore di ricerca. Le fasi successive del processo potrebbero determinare cambiamenti significativi non solo per Google ma per l’intera industria tecnologica, influenzando l’accessibilità e la concorrenza nei mercati digitali anche in Europa e negli altri continenti.

Negli ultimi dieci anni, Google ha accumulato 8,25 miliardi di euro di multe dalle istituzioni antitrust dell’Unione europea che  riguardano tra gli altri il suo sistema operativo mobile Android e il servizio pubblicitario AdSense.


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Sabato 26 Ottobre 2024 torna il Linux Day

Sabato 26 Ottobre 2024 torna il Linux Day: la principale manifestazione italiana dedicata al software libero, la cultura aperta ed alla condivisione promosso da Italian Linux Society e supportato da GARR.

Il Linux Day nasce nel 2001 come appuntamento annuale per riunire le forze di tutte le persone attiviste nel movimento del software libero, dell’open source, ed in particolare di Linux. Proponiamo una rete di eventi decentralizzati in tutta Italia, organizzati autonomamente da gruppi di persone volontarie e appassionate. È il più grande evento italiano sul tema con migliaia di visitatori.  L’accesso al Linux Day è libero e gratuito.

Il Linux Day di Torino si svolge al  Collegio degli Artigianelli  in Corso Palestro 14 nel pomeriggio di Sabato 26 Ottobre.


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